Massimo Valeriano Frisari
La moderna comunità religiosa Romana ha dato un termine per definire chi segue l’antico Cultus Deorum Romanorum: con Tradizione Romana si vuole intendere chi fa un fedele ricostruzionismo di quella che appunto è la nostra Tradizione intesa come religione, cultura e identità.
La Tradizione è ciò che viene tramandato, un retaggio culturale ancora vivo perché ancora ricordato e sentito proprio, un patrimonio di valori e di costumi che costituiscono l’identità di un popolo. Chi vuole conformarsi a questa eredità può farlo tramite le numerose opere antiche che per nostra fortuna sono giunte fino a noi. Gli studi umanistici quindi sono un elemento essenziale di questa riscoperta religiosa, un Rinascimento che deve sbocciare nelle nostre coscienze, accompagnato da un informazione totale che deve coprire ogni campo, da quello storico-culturale, archeologico, filologico, filosofico, letterale e artistico per farsi un quadro generale della mentalità antica in ogni suo aspetto. Solo così si riuscirà a fare luce sulla sapienza dei Padri senza cadere nella rete della superficialità o dei limitati giudizi di qualche singolo pensatore.
Il Tradizionalista Romano vive e percepisce questo bagaglio culturale come un tratto distintivo del suo essere uomo e membro di una comunità –sia la sua cerchia di sodali sia la sua Patria/Civiltà- qualcosa di perfettamente attuale e odierno perché vissuto ogni giorno. Quando legge Seneca o Catone non sta studiando qualcosa di antico, di trapassato, ma sta alimentando il suo presente.
La Tradizione non appartiene a un tempo, non è relegata al passato ma scorre lungo un unico presente ideologico. La storia è la radice viva del presente che porta a riflettere sul nostro presente. Roma stessa, epicentro della sua religione, è un luogo ricco di quella memoria collettiva che rende ogni luogo sacro poiché vissuto e legato a fatti memorabili: sui Rostra si sfidarono i più grandi oratori, il marmo della Curia fu calpestato dagli uomini che decidevano le sorti del mondo, all’ombra di quel portico fu assassinato il Tiranno, sotto quella porta partirono i trecento Fabii, ai piedi di quella colonna in cima al Campidoglio trovò la morte Tiberio Gracco. Non lontani racconti ma ricordi che taluni luoghi ancora conservano.
Il passato e il presente si intrecciano perché le memorie di ieri sono da monito per gli uomini di oggi. Non esistono gli “antichi romani”: il Tradizionalista vede se stesso come il continuo culturale dei Padri, erede legittimo perché ha saputo raccogliere la loro memoria.
La Tradizione.
Dunque chi segue la Tradizione Romana si sente parte di un unico grande popolo che dai tempi di Romolo non ha mai interrotto la sua marcia. Egli è un Uomo Romano al pari di quei valorosi cittadini-soldato che portarono la Civiltà ai confini del mondo, pari a quei legionari che tornavano vittoriosi da ogni angolo della terra. Questo non significa che si vive nel passato o che ci si illude di tornare indietro nel tempo. La storia è storia perché è stata ed è passata, l’uomo di oggi vi si riconosce e ne raccoglie i giusti consigli per poter proseguire con maggiore sicurezza. La meta è il futuro, le nuove glorie e i nuovi trionfi che attendono i valorosi. Il tempo non è un ciclo che si ripete ma una perenne via che si protrae verso orizzonti infiniti.
Tale è la percezione che l’Uomo Romano ha del tempo, della storia e del futuro. Quello che unisce l’uomo di oggi all’uomo di ieri, oltre alla comune memoria, sono i valori della Tradizione che mai il passare dei secoli potrà mutare. Questi valori oltre a educarlo e a conformarlo a un etica religiosa e sociale plasmano la sua idea del mondo, della vita e della morte, di sé stesso e degli altri, dello spazio e del tempo.
Egli si definisce Romano perché Romano è il suo animo, Romano è il suo atteggiamento –il suo Decorum- Romano è il suo modo di vivere a casa e in città, le relazioni con gli amici e quelle nella società, il suo rapporto con gli Dèi e con la famiglia. La Romanità è uno stato mentale che coinvolge l’individuo da quando apre gli occhi la mattina a quando li richiude la sera. Ogni istante va vissuto Romanamente perché ogni istante è un azione che va affrontata secondo i valori antichi, secondo il Mos Maiorum. Ogni azione, e ogni luogo in cui l’azione si svolge, è una più diversa dall’altra e va affrontata con la giusta gravità: con i suoi amici sarà gioviale e generoso, con i suoi sodali leale e disponibile; nella sua casa sarà un padre esemplare o un figlio rispettoso, in città sarà un cittadino onesto e pronto a servire la comunità; saggio e giusto in tempo di pace, clemente e valoroso in tempo di guerra.
Ovunque vada, qualsiasi cosa faccia egli sarà pienamente Romano. Il modo di pregare tipico della sua religiosità, il modo di presentarsi agli altri, la cura che ha di sé, anche quando si trova a tavola e si abbandona ai piaceri dell’amicizia: ogni sua azione testimonia la cultura a cui appartiene. Questo perché la Romanità è un atteggiamento che va alimentato ma soprattutto vissuto quotidianamente, in ogni istante, uno stato mentale a cui bisogna accedervi pienamente e con convinzione poiché ci si riconosce in quei precetti, in quello stile di vita così articolato e particolare con le sue regole spesso difficili ma che si accettano per volontà, per partecipare attivamente a quella Tradizione che costituisce la nostra identità e che ci caratterizza come Popolo cosciente della sua storia e dei suoi valori.
Il Romano sceglie di impegnarsi in una complessa pratica spirituale che richiede cura e dedizione, il sentimento non è cambiato con i secoli e quella Romana rimane la religione del giuramento e del dovere. Egli riconosce il valore assoluto della Pietas che è il rispetto e la cura della religione che non si può esprimere senza la Fides, l’impegno sacro che unisce l’uomo agli Dèi. Per i Romani non esiste alcun tipo di legame senza una valenza sacra che unisca un individuo a un altro o a un gruppo: cittadinanza, matrimonio, esercito, corporazione. Così, secondo lo stesso principio, l’uomo comincia questo legame con gli Dèi – che si chiama Pax Deorum- che come ogni rapporto comporta doveri, sacrifici e attività continua. E proprio la cura scrupolosa e costante sta alla base della Religio. L’uomo religioso è colui che si occupa degli Dèi, quindi che mantiene fede all’impegno preso per il suo bene e quello dei suoi cari.
Per comprendere al meglio questo sistema bisogna scrollarsi di dosso secoli di misticismo e di romanticismo che hanno dato vita a una “religione del cuore” dove c’è un Dio buono e giusto con suoi emissari che camminano al nostro fianco come amabili amici. La religione romana ha un ruolo sociale: regola i patti; non è che l’insieme di più trattati che uniscono gli uomini e mantengono saldo l’equilibrio sociale garantito dalla reciprocità dell’impegno e dalla continua cura della parola data. Così la forza della Repubblica che si basava sull’armonia delle classi era assicurata dall’inviolabilità dei diritti e dei doveri. Non è un atteggiamento utilitaristico, superficiale e “commerciale” come lo interpreta l’uomo moderno succube di sentimenti ed emozioni che per trovare un motivo hanno bisogno di immaginare un contatto affettuoso e diretto col Divino. L’uomo antico era nel contratto che percepiva il Divino, perché in esso ci si consacrava agli Dèi in un rapporto sacro perché vincolato da norme precise.
Roma stessa nasce da un atto giuridico che in quanto tale è sacro a Giove, la Fides mantiene saldo il patto e l’impegno preso verso esso. Allo stesso modo funziona la Pax Deorum che non è altro che un patto tra la comunità umana e divina che si rinnova nell’impegno del rito, il cultus. La religione, come spiegava Cicerone, non è altro che la cura con cui rileggiamo (Relegere, da qui Religio) scrupolosamente il culto degli Dèi:
« Religio è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolti ad un essere superiore la cui natura definiamo divina »
Lo stesso cultus proviene da agricultura ed è la stessa cura e precisione con cui un contadino coltiva la sua terra rendendola da incolta a colta. Da questa stessa radice e concetto nasce l’idea di cultura come continua coltivazione del sapere. Gli Antichi dicevano che l’agricoltura fosse una religione a tutti gli effetti, e infatti il contadino come un sacerdote segue in modo preciso un suo calendario fatto di riti e cicli che si ripetono negli anni. Nella stessa radice troviamo la parola cura, intesa come cura del corpo e della salute che può essere garantita solo tramite costante esercizio ed attenzione.
Così quindi il culto agli Dèi è una pratica continua e ininterrotta che necessita di precisione e correttezza, ed è proprio questa cura che sta alla base della Fides, l’impegno preso e la parola data che hanno sancito il legame. Proprio come un trattato: ciò distingue l’homus religiosus dall’homus negligens, chi rispetta i suoi doveri e chi incurante li ignora. E non c’è da stupirsi se ritroviamo nella religione quegli stessi termini e atteggiamenti giuridici: il diritto romano che oggi sta alla base della giurisprudenza mondiale nasce da norme religiose. Le XII Tavole, fondamento del diritto, non erano che precetti e accorgimenti religiosi. Ecco quindi che si ritorna all’arcaica religione del giuramento e del diritto che fin da tempi remoti fu sempre assicurato e custodito dai Pontefici, il più grande collegio sacerdotale di Roma.
Questo rapporto sia con gli Dèi che con i nostri familiari e concittadini oltre all’impegno è garantito da una serie di norme morali che mostrano all’uomo come deve comportarsi con sé stesso e con gli altri. Queste regole che sono una legge non scritta costituiscono il Mos Maiorum, il costume degli Antenati, il modo semplice e spartano con cui vivevano i Patres e che da sempre fu un modello etico e filosofico per i veri Romani, un patrimonio da tutelare e da difendere contro la degenerazione dei tempi e dalle molli mode straniere. E in questo il vecchio Catone fu campione assoluto.
Questi valori mostrano quale atteggiamento bisogna adottare, ovvero uno spirito temperato e frugale che si accontenta di cose semplici ed essenziali senza farsi ingannare dalla facilità e dalla comodità di un superfluo che è fondamentalmente inutile o almeno non necessario; la libertà dalle passioni volubili e dal materialismo che indeboliscono la mente e rammolliscono il corpo, la serietà e la laboriosità con cui affrontare le cose, la dedizione e la partecipazione con cui ci si sacrifica alla comunità rinunciando alla propria individualità che non è altro che egoismo, il rispetto e la devozione agli Dèi, alla famiglia e alla Patria. Insomma una vita nobile e virtuosa che ruota attorno al concetto di moderazione e libertà intesa come autocontrollo e disciplina, uno spirito che non ha bisogno di nulla se non della sua onestà, che non si piega davanti al vizio, al denaro e alle passioni, che sottomette il dolore e l’egoismo.
Di uomini esemplari che furono da modello di virtù la storia romana ne è piena. Dai valorosi eroi come Muzio Scevola e Orazio Coclite che diedero prova di coraggio e fermezza quasi disumana: il primo, catturato dopo il fallito attentato, mostrò a Porsenna che nessuna tortura avrebbe mai piegato un soldato di Roma lasciando volontariamente ardere la propria mano sul fuoco punendo sé stesso per l’errore commesso; il secondo rimase da solo a fare da muro contro l’esercito etrusco per lasciare il tempo ai suoi compagni di abbattere il ponte e chiudere gli accessi alla città, ferito da più dardi fino a perdere l’occhio che gli costò il soprannome riuscì nel suo intento e a salvarsi anche la vita. Oppure i campioni di etica politica come Furio Camillo e Cincinnato che soffocarono i propri problemi per servire gli interessi del Popolo: Camillo, il conquistatore dell’odiata Veio che riportò la Concordia nella società, anche se in esilio volontario perché colpito dalla calunnia e dall’invidia, non esitò a correre a salvare quel popolo che lo aveva tradito e che adesso necessitava del suo aiuto; di Cincinnato è famosa l’umiltà e l’abnegazione al dovere, si ridusse in rovina per salvare il figlio dalle false accuse ma lasciò l’aratro –l’unico bene che gli era rimasto- per impugnare la spada quando il Senato lo richiamò a guidare le legioni, e finito il suo dovere tornò alla terra prima ancora della scadenza del mandato senza mai approfittare dell’immenso potere che gli aveva conferito la Dittatura. E ancora Attilio Regolo a testimonianza di quanto sia importante per un Romano la parola data: catturato dai cartaginesi fu mandato a Roma per convincere il Senato alla pace dopo che giurò al nemico che sarebbe tornato in ogni caso, e fu così che a Cartagine trovò la barbara morte dopo atroci torture. Modello di temperanza fu Fabio Massimo che col suo temporeggiare fece più danni di cento sprovveduti assalti salvando la vita di numerosi giovani romani; suo collega fu Claudio Marcello, la “Spada di Roma”, tra i migliori e più valorosi condottieri che abbiano mai calpestato questa terra: conquistatore di Siracusa, pacificatore dell’Italia, ebbe il raro onore di festeggiare la cattura delle Spolie Opime -prima di lui ci fu Romolo- uccidendo in duello un comandante nemico, trovò poi la morte in battaglia da vero soldato. E non dimentichiamo i Decii, eroica generazione di generali che sacrificò la propria vita per salvare quella dei loro uomini e garantire così la vittoria e la grandezza della Patria.
Questi uomini, il cui elenco è davvero lungo tra campioni d’armi, di legge e di filosofia, incarnarono il Mos Maiorum e furono lo specchio del vero animo romano che pone il valore, la libertà e il benessere collettivo al di sopra di ogni cosa.
L’incontro con lo Stoicismo fortificò e chiarì questi valori e rese il Mos Maiorum una vera e propria filosofia innata del Popolo Romano. Ecco il perché del rapido diffondersi di tale pensiero che rese Roma la nuova culla della Stoà che ebbe tra i suoi rappresentanti gli uomini più illustri della Romanità, i più accaniti difensori della Tradizione e dei costumi antichi che si opposero con ogni mezzo contro l’avanzare di mode caduche e mortificanti. “In medio stat Virtus” recita la massima Stoica, e così l’Uomo Romano ha fatto della moderazione la sua più grande virtù, una mitezza d’animo sgombra da ogni eccesso che come unica padrona ha la Virtù stessa. Il resto è solo un capriccio superfluo che non aggiunge e non leva nulla.
Per questi motivi la conoscenza della filosofia Stoica può aiutare a comprendere meglio la mentalità e il pensiero romano; autori come Seneca ci hanno regalato pagine memorabili sulla fermezza e la inflessibilità del vero Vir che senza problemi sa rinunciare a ogni cosa, anche alla vita stessa, pur di conservare la sua libertas e dignitas.
Queste virtù portano l’Uomo Romano a considerarsi come membro di una collettività in cui vi si riconosce pienamente. Questa comunità è lo Stato Romano in senso tradizionale con le sue istituzioni politiche e religiose che incarnano i valori etici e rappresentano il Popolo in tutta la sua unità. La Costituzione della Repubblica era l’equilibrio perfetto tra gli ordini sociali che garantiva la giustizia e i diritti di tutti i cittadini; anche le cariche amministrative erano collegiali in modo da distribuire il potere senza il rischio che un solo individuo potesse prevaricare sugli altri o che una classe potesse sopraffare l’altra. Così delle leggi assicuravano che ci fosse un console di rango patrizio e uno plebeo, che le Assemblee Popolari potessero fare da contraltare al Senato, che l’amministrazione fosse divisa tra l’ordine equestre e quello senatorio. Un bilanciamento perfetto dove tutti controllavano tutti e dove ogni azione si svolgeva alla luce del sole e sotto l’occhio vigile del Popolo che in casi estremi poteva sempre minacciare una sommossa o una secessione. Quindi per funzionare lo Stato Romano aveva bisogno di concordia e di collaborazione tra tutti i cittadini di ogni rango e censo. Un armonia e un unità che sono garantiti anche dalla sacralità dei doveri e dei giuramenti che sono alla base dello Stato stesso.
Questa idea di Stato formatosi dalla Rivoluzione e da lunghe lotte era l’incarnazione dello spirito e dei valori della Tradizione e delle virtù romane. Ogni cittadino si riconosceva in questo sistema perché esso rappresentava i cittadini e il loro modo di vivere. Il Romano considera la collettività come unico bene, la Maiestas Populi Romani come la virtù più grande che conferisce gloria a tutta la comunità, gli interessi pubblici come i bisogni più urgenti e gravosi dove nessuna questione privata può interferire. La partecipazione attiva alla vita politica è il dovere di ogni buon cittadino, essere utile alla collettività l’aspirazione più grande, difendere e rendere illustre la Repubblica un onore. Ed è proprio la Res Publica ad essere al centro della vita del Romano: la Cosa Pubblica appartiene a tutti, la sua gloria è la gloria di tutti, come la sua disfatta è la disfatta di tutti. Nel suo mondo gli affari privati e individuali hanno poco spazio, e anche la famiglia a cui il Romano è attaccatissimo viene oscurata se in mezzo ci sono gli interessi della Patria, di quella Patria che tramite la Pax Deorum si è consacrata agli Dèi.
Oggi che non esiste più uno Stato Romano non significa che l’Uomo Romano sia condannato all’isolamento e ai limiti di una piccola cerchia di pari: egli per affermare sé stesso e i suoi principii ha bisogno di una grande comunità, di rendersi utile agli altri e servire la causa comune. L’attivismo politico e la socialità sono i suoi primi interessi, omettendo i quali rischierebbe di sprofondare nell’individualismo che lo porterebbe lontano dai valori dei suoi Padri. Così ancora oggi, anche in assenza di uno Stato riconosciuto, egli pone la sua collettività e il benessere di essa come l’obiettivo più alto e nobile da seguire con puro disinteresse e abnegazione. Proprio come i suoi Avi servivano la Repubblica.
Allo stesso modo e per questi motivi il Romano instaura un rapporto con gli Dèi per garantire la fortuna della sua comunità, collegio o famiglia; oggi come ieri la Cosa Pubblica –qualsiasi essa sia- è al centro della religione e della Pax Deorum: si chiude così il cerchio dopo aver toccato ogni sfera della vita, dalla politica all’intimità alle relazioni sociali. Tutto dunque è permeato di quella religiosità che vive ogni cosa come sacra o consacrata, un tutto che per funzionare necessita inevitabilmente di un favore Divino che si attira tramite il rito e si coltiva con la cura costante.
In casa e in città, a Roma e nel mondo, con la comunità o con sé stesso l’Uomo Romano sa affrontare secondo la sua cultura ogni aspetto e ogni campo della vita. Romanamente, secondo Tradizione e il costume antico egli non tradisce mai la sua identità e i suoi valori che lo rendono il membro di una Società e di una Civiltà ben definita e radicata nella storia che non ha bisogna di riconoscimenti ma di uomini in cui vi si riconoscano. Il suo è un mondo variegato che brulica di energia, di quelle forze invisibili o no, percettibili o meno che popolano ogni anfratto, Numi che governano i propri specifici spazi, ogni luogo e ogni attività sono lo scenario dove mettere in pratica la sua religiosità e la sua Tradizione: è ciò che rende la sua fede attiva e dinamica, non un passato morto ma una sfida e una pratica continua da vivere ogni giorno.