di
Massimo Valeriano
Frisari
Traditio e Religio.
Cominciamo questo breve viaggio nel mondo del Cultus Deorum trattando due parole ben
distinte ma che spesso vengono confuse ed utilizzate entrambe per descrivere
questo particolare contesto spirituale.
Con Tradizione Romana non si fa riferimento a qualcosa di
prettamente religioso, ma sono gli usi, i costumi e l’etica che ci è stata
tramandata, ossia tradere, che
significa appunto trasmettere, da cui proprio la parola latina Traditio. La Tradizione quindi non è
obbligatoriamente legata alla sfera religiosa ma consiste negli elementi che
caratterizzano un popolo, la sua storia ed etnicità, la sua cultura e, quindi,
le sue tradizioni.
Queste tradizioni che con i secoli formano il retaggio
ideologico di un popolo, la sua identità, sopravvivono al tempo trovando nuove
interpretazioni e nuovi adattamenti. Questo è quello che distingue le civiltà
di tutto il mondo dove elementi antichi che si manifestano nell’arte, nella
politica o nella filosofia si confondono con la modernità e con i nuovi
prestiti culturali. Nel caso italico ed europeo troviamo il Medio Evo e il
Rinascimento ricco di elementi precedenti, ancora fortemente legato a quella
identità, a quella Romanità che ci appartiene perché ci è stata tramandata. In
una sola parola: continuità. E di questa continuità ne parla a lungo Guido De
Giorgio quando evidenzia l’esistenza di un'unica Tradizione che unisce il mondo
antico a quello moderno e che è indiscutibilmente Romana.
Chi si definisce Tradizionalista Romano vuole esprimere il
suo attaccamento a quella tradizione e a quella cultura che appartiene al suo
popolo, alla storia del suo paese, e che sopravvive nei gesti e nei simboli di
una continuità perenne. Ma sbaglia se limita questo Tradizionalismo a una
religione in particolare.
Religio è
sicuramente una parola, e un modus
operandi, che entra nello specifico sacrale. Prima di tutto la Religio è la cura continua e scrupolosa
delle attività sacre, il dovere verso il divino, ossia l’esercizio del Cultus Deorum che tramite la Pietas impegna l’individuo nella pratica
continua delle funzioni religiose per il mantenimento della Pax Deorum, che consiste in quel clima
di benessere e di prosperità per sé stesso e per la sua comunità.
Con Religio Romana,
quindi, ci si riferisce a tutte le attività religiose e a quell’atteggiamento
verso il divino (la scrupolosità, il rispetto, il timor sacro) che costituisce il contesto spirituale romano antico.
La pratica della Religio,
unita allo studio e alla continuità della Traditio,
sono i pilastri di ogni Cultore Romano.
Il Pensiero Romano.
La Tradizione Romana, come emerge da questo breve trattato,
non possiede dogmi, non ha un libro rivelato, non esistono profeti. La Cultura
Romana è un insieme di atteggiamenti, di azioni e di modi di fare che nascono
da un pensiero condiviso. Questo pensiero è il costume degli Antenati, il Mos Maiorum, la vita semplice, pia e
austera dei Patres fondatori. Non si
tratta di una filosofia, anche se molto in sintonia con lo Stoicismo con il
quale, molto più tardi, stringerà una solida empatia.
Per secoli l’unica “filosofia” dei Romani è stata proprio
questo Mos Maiorum, che non si tratta
neppure di una filosofia. La filosofia venne solo molto tardi, proveniente dal
mondo greco, che interpretava la società e la morale ponendo delle regole e
delle barriere, reprimendo o condannando comportamenti, fissando una rigidità emotiva
che aprirà le porte alla religione sincretista e quindi, più tardi, al
cristianesimo e alle filosofie che seguirono.
Il Mos Maiorum
quindi non è una filosofia, anche “legge non scritta” è una parola sbagliata. I
Mores sono semplicemente le
consuetudini che i Patres adoperavano
per vivere nel modo migliore nella società e con le divinità affinché gli
uomini vivessero nel rispetto e nell’onestà con sé stessi e mantenessero l’impegno
e la Pietas verso gli Dèi. È un corpo
comportamentale che è stato fissato nella memoria collettiva che ci è stato
tramandato con i racconti antichi, le gesta dei grandi eroi e delle fiere donne
che mostrarono coraggio unico affrontando situazioni eccezionali, l’altruismo e
la generosità verso i concittadini, la lealtà e l’onorabilità della loro parola
negli impegni presi con gli uomini o gli Dèi. Ma non si tratta dell’eroismo
mitico dei racconti greci, l’eroe romano non è un semidio con poteri
sovrannaturali, non è invincibile, non è immune ai colpi dei nemici, non ha l’aiuto
amichevole di qualche divinità: l’eroe romano è un normale cittadino che si
trova di fronte a situazioni particolari che mettono a dura prova la sua
fermezza e il suo valore, soffre, patisce la guerra e la perdita degli amici,
viene mutilato, offeso o incatenato, ma riesce ad affrontare tutto questo con
un coraggio che fa sbiadire la forza ultraterrena dell’eroe greco. Quello
romano è un vero eroe, consapevole della sua mortalità e dei suoi limiti,
conosce il rischio e il dolore, ma accetta di affrontare ogni sfida in nome del
suo ideale, dell’amore che lo unisce alla sua famiglia e alla comunità, nei
doveri verso la Patria e i suoi concittadini, nella parola d’onore che lo
vincola alla città. L’eroe romano non è di ferro, non è un semidio, non è un
superuomo, è un essere umano che si emoziona e che piange.
I Patres quindi
non ci hanno raccontato un modello comportamentale, non ci hanno narrato una
favola e non ci hanno imposto una legge: il loro credo, il codice che reggeva il
loro cuore, ce lo hanno mostrano con l’azione, sui campi di battaglia, nell’onestà
verso i loro pari, con la serietà e il disinteresse amministrando con equità e
imparzialità la Cosa Pubblica, con l’amore e la premura verso i familiari. Con
i fatti ci hanno mostrato la via da seguire.
Questo è il Mos
Maiorum, in un epoca dove le parole avevano una valenza sacrale e l’onore e
la parola data era l’unica legge, ai tempi dell’arcaica religione del giuramento
dove gli Dèi erano chiamati a testimoni per vegliare sugli accordi e sui patti
degli uomini, le divinità come unici giudici e non serviva scrivere delle
regole su di un pezzo di carta.
I Mores,
tramandati dalle azioni degli Antenati furono alzati a modello, l’esempio da
seguire, il comportamento che deve adottare ogni buon romano. E nei secoli
successivi gli uomini e le donne che vissero a Roma e che, come i loro Padri,
si trovarono davanti ad eventi straordinari, ci hanno lasciato la testimonianza
del loro coraggio e del loro disinteressato amore verso la collettività, nella
devozione agli Dèi e alla famiglia, nel dovere verso la Cosa Pubblica,
insegnandoci che il dono più grande di un uomo è la libertà e la sua dignità, gli
affetti e la vicinanza dei suoi simili, e che la Virtù è la sua unica
ricchezza, l’unica cosa che può renderlo umano.
Questo è il Pensiero Romano, l’Anima di Roma, ed è doveroso
per ogni Cultore e ogni odierno romano apprendere questo codice, seguendo l’esempio
e le gesta dei nostri Antenati.
I doveri di un
Cultore.
Il motivo principale, il perché qualcuno deve avvicinarsi
alla Religio, è quello di instaurare
un rapporto col divino che si fonda sulla reciprocità dell’impegno, ovvero la Fides. Abbiamo visto che questo rapporto
tra uomo e/o comunità umana e mondo divino è detto Pax Deorum, la Pace con gli Dèi (Pax nel significato romano di tregua, accordo, patto). Questo clima
di equilibrio si mantiene con la pratica continua del Cultus, sia quotidianamente che seguendo le festività maggiori sul Kalendarium, e necessità della
scrupolosità e dell’attenzione ai dettagli che distingue la particolare arte
ritualistica romana, questo perché non basta solo il buon’intento ma c’è
bisogno della solennità e della gravitas
che bisogna adoperare in circostanze così grandi e importanti, come è appunto
invitare un Dio a legarsi a sé.
Oltre alle grandi ricorrenze e alle offerte agli Dèi
principali un buon Cultore deve ricordare di officiare quotidianamente alle
divinità della sua casa e della sua famiglia: Lari, Penati, Geni, Dèi Mani;
essi vivono attorno a noi, con noi, condividendo lo spazio domestico e in
alcuni casi la genealogia familiare. Si tratta del Culto Privato, la religione
che ogni famiglia deve coltivare per onorare le entità che proteggono la casa e
i suoi abitanti, o per ricordare e placare gli Antenati.
È quindi il principale passo che deve compiere ogni Cultore
quello di familiarizzare con queste forze, queste entità invisibili ma presenti
-i Numina- che vivono nelle nostre
case e nelle nostre città, che possiamo troviamo nella quieta campagna o tra le
onde impetuose, che ci assistono alla nascita e che ci accompagnano alla morte.
È un mondo brulicante di vita e di energia, di quelle forze
che bisogna placare e rendersi amiche.
Compreso il Divino che circonda l’uomo e le sue attività, un
Cultore deve specialmente dedicarsi allo studio delle cose antiche, leggendo le
opere dei principali autori per apprendere i fondamenti della Cultura Romana,
sia per quanto riguarda la spiritualità che per l’etica, ciò per assorbire i
valori di una Civiltà che è fondamentalmente uno stile di vita, una corrente di
pensiero: la Romanità si esprime nell’agire e nel pensare romanamente. E i
nostri maestri indiscussi sono gli stessi Antichi che quella Romanità l’hanno
vissuta e ce ne tramandano il sapere.
Gli studi umanistici devono formarci verso una cultura
classica per poterne apprendere idee e virtù, e far sì che fiorisca un nuovo
Rinascimento, prima di tutto proprio dentro noi stessi, per poi potersi irradiare
all’esterno e trascinare il mondo in una nuova riscossa e una nuova presa di
coscienza più umana ed in armonia col tutto.
Questo percorso è importante anche per liberare ogni
individuo dal giogo di guru e di santoni che, purtroppo, popolano massicciamente
questo nostro campo. È molto facile, soprattutto per un esordiente, cadere
nella rete di questi personaggi che sfruttano la Religio per imporre le loro personalissime idee, spesso per
trascinare la gente verso ambienti politici che dovrebbero tenersi lontano
dalle cose sacre, in altri casi invece per scopi più subdoli e materiali.
L’arma più potente per sfuggire a questi personaggi è la cultura: solo essa ci
rende liberi e un uomo che sa è un uomo che non affogherà mai nei fiumi verbali
di qualche fantomatico maestro di vita.
Anche una lettura sbagliata può essere dannosa e influenzare
per sempre un apprendista. Pertanto consiglio sempre di partire leggendo
direttamente le opere antiche, e solo successivamente, quando ci si è fatta una
minima cultura classica, passare ad altre letture moderne.
Per conformarsi il più possibile a quell’eccelso codice di
pensiero e di comportamento, che è la Romanità, un Cultore deve dedicarsi allo
studio e all’attenzione filologica in modo da poter svolgere un
ricostruzionismo religioso il più fedele e corretto possibile. A differenza di
altre realtà religiose, più o meno affini per via della comune struttura
politeistica, il Cultus Deorum
necessità di quella scrupolosità e di quella meticolosità di cui si è già
parlato. Ecco perché a differenza di paganesimo o neopaganesimo noi preferiamo
usare il termine “ricostruzionismo”, proprio per evidenziare l’intento che c’è,
tramite la seria ricerca, di stabilire una linea di continuità tra la Religio Romana antica e quella odierna.
Non siamo il neo di nulla, non siamo “neo-romani”. Siamo Romani e basta.
Pertanto si rende indispensabile una cultura classica di base, o almeno la
conoscenza delle principali fonti. E per nostra fortuna la Civiltà Romana ci ha
tramandato una ricchissima quantità di testimonianze archeologiche e
letterarie, oltre a ciò che sopravvive ancora nella nostra società, un
invidiabile bagaglio che pochissime culture al mondo possono vantare.
Per ristabilire questa continuità bisogna fissare un legame
ideologico con quella che è la base della Religio
Romana, ossia di quella Prisca Roma che fu sempre modello e ispirazione per
tutti i secoli a venire. Questo significa che è preferibile evitare pratiche
quali l’esoterismo, il sincretismo e tutte quelle espressioni che solo
successivamente fecero il loro ingresso nel mondo romano, sempre marginalmente
e che, a lungo andare, minarono i fondamenti stessi della spiritualità romana;
e soprattutto bisogna guardarsi da filosofie e correnti di pensiero moderno che
non comprendendo a pieno la Romanità hanno cercato di rileggerla e
interpretarla a piacimento secondo le convenzioni sociali e i gusti politici del
loro tempo.
Se vogliamo “tornare a Roma” dobbiamo seguire quella strada,
che è lunga e dritta, già battuta e lastricata dalle testimonianze degli uomini
che la vissero, senza farci corrompere lungo il cammino da qualche attraente
vagabondo che ci prometterà una via più corta e comoda per poi farci ingoiare
un pallido surrogato.
Sicuramente molto è andato perduto e alcune lacune sono
evidenti. Ciò non significa che bisogna rimanere immobili pietrificati dalla
paura di fare qualche azione errata, ma non bisogna neppure prendere iniziative
avventate inventando riti e formule da mettere dove mancano. La coerenza
storica è importantissima per un ricostruzionista: bisogna seguire le fonti fin
dove esse possono guidarci, e dove ci sono lacune si può considerare il caso di
adoperare quelle formule e quelle strutture rituali che ci sono pervenute
adattandole al contesto frammentato, quindi sempre in accordo con i principi
della Religio. Nel caso in cui ciò
non sia possibile, come i particolari e complessi rituali di alcuni collegi
sacerdotali, bisogna rassegnarsi al fatto che determinate informazioni siano
andate perdute per sempre, ed è meglio lasciare il vuoto che rimpiazzarlo con
qualcosa di fittizio che rischierebbe solo di peggiorare la situazione.
Studio e consapevolezza sono i primi passi di un neofita, ma
è necessario accompagnare questo percorso con la pratica concreta del Cultus:
La prima iniziativa è sicuramente quella di allestire nella
propria dimora uno spazio dedicato alle divinità (larario, ara, aedicula) affinché si inizi ad offrire
ai propri Dèi.
Il secondo passo, tramite lo spazio sacro, è quello di
ritualizzare seguendo le principali festività che vengono ricordate dal Kalendarium. Si comincia col
familiarizzare con la pratica ritualistica, con quei gesti e quelle parole che
col tempo diventeranno automatiche e naturali.
Fatto ciò un Cultore non può rimanere da solo, per le
ragioni che spiegheremo di seguito, e deve pertanto iniziare a cercare altri
“simili” per poter vivere insieme agli altri questa spiritualità.
Obiettivi della
Communitas Populi Romani.
Quella Romana è fondamentalmente una religione
collettivistica e conviviale, non lascia molto spazio all’individualismo e al
personalismo che spesso portava -e porta ancora- a condannabili pratiche
superstiziose. I nostri Avi ci hanno sempre messo in guarda dalla superstizione
che, condividendo il pensiero di Cicerone, è un empietà che bisogna sradicare
dalla vera religione. Quindi se la superstizione -e le pratiche esoteriche-
servono a placare paure e bisogni individuali, l’uomo romano ripudia tutto ciò
e vive la Religio come impegno e atto
d’amore verso la collettività, dalla famiglia allo stato, dalla casa alla
piazza, ovunque si esprima lo spirito comunitario e l’azione sociale.
È perciò nell’interesse di ogni Cultore condividere la sua
spiritualità liberamente con gli altri, cercando quelle comunità che già
agiscono nella sua zona o, se è necessario, crearne di nuove.
In questo la Communitas
Populi Romani è in prima linea divenendo in poco tempo un baluardo della
spiritualità degli Avi, costruendo in
varie parti d’Italia comunità umane che possano esercitare i valori della Romanitas in pieno spirito conviviale e
comunitario, abiurando ideologie politiche e posizioni filosofiche estranee al Mos Maiorum (e che devono appartenere
solamente al sentimento individuale di ognuno senza coinvolgere altre persone o
un intera categoria come è il Cultus
Deorum) evitando il fiorire di personalismi o di frazionamenti motivati da
idee fallaci e moderne. L’unico interesse della Communitas è quello, appunto, di dare vita a una grande comunità
spirituale organizzata e coesa, dove ognuno, mettendo da parte rivalità e
differenze, possa esercitare la Religio
insieme a suoi correligionari. È così che si incitano tutte quelle attività
sociali, l’incontro conviviale e l’organizzazione di riti pubblici. Un Populus che riscopre sé stesso.
Il principale obiettivo della nostra Communitas è proprio quello di strutturare questa comunità
facendola aggregare in strutture sociali tradizionali dove i sodali si
incontrano e si organizzano. Curie, tribù e assemblee varie, un organismo
chiaro e complesso che si conforma a quello spirito sociale della Res Publica che poggia le sue basi nella
partecipazione attiva, nella democraticità e nella collegialità. Questo perché
non è sufficiente una semplice aggregazione spirituale ma c’è bisogno di ridare
vita a ciò che stava dietro a quella stessa aggregazione spirituale, il suo
fondamento e il suo motivo: il Populus.
Era il Popolo Romano la più grande comunità in cui si muoveva un cittadino, era
per questa comunità che egli dava la vita, era per essa che sacrificava agli
Dèi, era il bene collettivo il suo più grande interesse e contribuire a ciò la
sua unica aspirazione. Il Popolo Romano non era una semplice cittadinanza, ma
era un sodalizio sacro, sancito dal patto degli uomini con gli Dèi… il Popolo
Romano era un entità religiosa.
Il Cultore Romano che si considera erede e continuazione dei
suoi Avi Antichi percepisce sé stesso come un cittadino romano, è dunque suo
interesse e preoccupazione quella di dare vita a una struttura sociale dove
poter ritrovare queste caratteristiche. E se il Popolo Romano è una struttura
religiosa è proprio questo Popolo che bisogna rianimare definendone gli spazi e
i contorni, la sua identità. Ecco, dunque, perché per noi è così importante
costituire una grande comunità organizzata, poiché, seguendo lo spirito più
autentico della Romanità, la convivialità e il sodalizio sono un pilastro della
stessa Religio.
Un'altra delle battaglie della Communitas è quella di ripristinare l’esercizio pubblico della Religio. Ci siamo già distinti in eventi
aperti e continueremo su questa strada. Svolgere riti pubblici è fondamentale
per lavorare a quello stesso progetto di formazione del Populus: non ci può essere cittadinanza senza l’incontro e
l’attività sociale negli spazi propri della socialità. Un Romano si muove e opera
alla luce del sole, non nel buio di una cantina, la sua “arena” è la piazza.
Bisogna tornare a svolgere il Cultus
Deorum non solo tra noi stessi ma anche all’aperto, liberi dalla paura e
dall’imbarazzo di una sotto-cultura settaria che ci ha influenzato e
condizionato troppo a lungo. Inoltre ha anche una considerevole valenza
spirituale il poter esercitare in quei luoghi cari alla Tradizione,
valorizzandoli e facendoli conoscere, e conferendogli la dignità e la maestà
che gli appartengono svolgendovi le funzioni per cui sono stati creati.
Oltre a ciò, naturalmente, la Communitas diviene luogo di incontro e di dialogo e un mezzo di
informazione per diffondere e far conoscere la Religio, impegnandosi in quella durissima battaglia contro il
pregiudizio e l’ignoranza che corrompe e distorce la nostra immagine. C’è molto
da fare ancora, grandi muri da abbattere, e c’è da levare lo sporco lasciato da
decenni di abusi e di usi distorti della Traditio.
Forse è proprio questa la sfida più grande, e quella più difficile.
Essere Cultori oggi.
Ci si chiederà: a cosa serve seguire oggi la religione
romana? In questa epoca superficiale dove si da tutto per scontato e ci si lega
animatamente ad articoli passeggeri e di scarsa durata, valorizzando cose che
di valore non hanno nulla, un percorso del genere può sembrare inutile,
improduttivo, pazzesco. A cosa serve seguire qualcosa di intangibile e
invisibile quando puoi circondarti di un infinità di inutili oggetti che
sicuramente non rendono la tua vita migliore?
Noi che crediamo conosciamo la risposta, ma il resto del
mondo è soggetto all’ottusità sopra descritta. Ma volenti o non volenti ci
viviamo anche noi in questo mondo, e in quest’epoca, e di certo rinchiuderci in
sé stessi o in qualche scantinato non è la risposta. Dobbiamo ricordarci che gli
atipici non siamo noi, anche se in minoranza.
Dobbiamo ricordare a noi stessi e al mondo -ma soprattutto a
noi stessi- che il valore e la ricchezza risiede altrove, e il più delle volte
è proprio ciò che è intangibile a riempirti l’anima elevandoti in una condizione
di consapevolezza e di benessere che nessun denaro può comprare e nessun
oggetto può rimpiazzare. La nostra fame di sapere ci spinge ad una perenne
ricerca, siamo gli Umanisti del nuovo millennio, la cultura è ciò che ci rende
liberi e svicoliamo dalle trote che a milioni abboccano alle illusorie esche di
disonesti pescatori d’uomini. Il nostro “invisibile” è più reale e presente dei
loro castelli di sabbia, più robusto dei loro muri di menzogne, è eterno a
differenza delle loro credenze instabili e volubili. La concretezza delle
nostre idee si esprime nel sincero convivium,
nell’umanissimo incontro tra simili, nel valore del rapporto umano, nella
sincerità dell’impegno. Tutte cose che loro hanno perso, o peggio ancora non
hanno mai conosciuto.
Mi chiedono a cosa serve essere un Cultore Romano oggi. Ecco
a cosa serve, serve a rimanere umani, serve a mantenersi liberi spezzando le
catene di una realtà distorta e artificiale che è stata costruita per
mascherare l’ingordigia di un sistema malato. Io sono Romano, sono libero e sono
umano.
Molti possono essere i motivi che spingono un uomo ad
abbracciare la religione romana: il bisogno di approdare in una spiritualità
più vicina e umana, la profonda cultura che ci ha tramandato, i fondamenti e il
modo semplice e frugale con cui vivevano gli Antenati, la convivialità e il
piacere di condividere con gli altri, il dovere di ricordare le proprie radici
ricongiungendosi con la tradizione del proprio popolo. Tutti questi sono motivi
nobili che nascono da un cuore stanco di tutta questa superficialità e che
sente la necessità di battere per qualcosa di vero che sa toccare l’anima
accompagnandola in una dimensione diversa, dove la Virtù è l’unica reale
ricchezza.